mercoledì 19 novembre 2014

Nell’ormai consolidata prassi delle rivoluzioni colorate/primavere arabe assistiamo all’ultimo obbiettivo in termini di tempo. Dopo l’Ucraina e Hong Kong, anche l’Ungheria sembrerebbe essere entrata nel mirino del famigerato regime change di Washington.

Le principali cause che portano gli Stati Uniti ad adottare strategie aggressive contro altri stati (Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Ucraina, Yemen, Egitto, Tunisia, Libia, Argentina, Brasile, Russia, Venezuela, Cina, Hong Kong) sono da imputare principalmente a motivazioni geo-strategiche. La dottrina americana di politica estera si basa sul concetto di egemonia globale da oramai molti anni. Le motivazioni per cui queste nazioni sono state destabilizzate, bombardate o attaccate sono da ricercare nella visione occidentale della gestione di un paese: perseguire prima gli interessi Americani. E’ stato così in Siria, con i legami Iraniani, in Ucraina, per la vicinanza Russa e ad Hong Kong per la contiguità con la Repubblica Popolare Cinese. Naturalmente i target principali sono Russia, Iran e Cina, non di certo le nazioni-satellite che vengono aggredite. Il problema di fondo è la politica estera di Washington: perseverare con una dottrina di egemonia completa, significa considerare ogni zona del mondo come strategica e zona di interesse su cui porre una sfera di influenza più o meno accentuata.

Ciò che sorprende, ma non troppo, è come anche anche l’Europa contrariamente agli anni passati, sia divenuto un target legittimo per i Think-tank che determinano le scelte a Washington. Le motivazioni sono da ricercare essenzialmente nei mutamenti multipolari che stanno modellando il nuovo ordine mondiale. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un’Europa ancor più legata e dipendente da Washington, che esegua gli ordini senza porsi troppe domande sul reale effetto delle proprie azioni (vedasi le sanzioni UE alla Russia su Input USA), per centrare i propri obbiettivi strategici.

In questo contesto le recenti decisioni prese a Budapest, ma più in generale le politiche domestiche di Orban negli ultimi anni, hanno acceso più d’una spia rossa nell’amministrazione Obama.

Di pretesti per attirare l’attenzione di Washington, Orban ne ha dati molti: Intraprendere una strada concreta per uscire dall’Euroripagare i debiti internazionali al FMI, tentare di ottenere una moneta sovrana, una banca centrale meno vincolata dal BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali), una maggiore vicinanza con la Russia e lo sblocco del progetto South Stream.

Naturalmente la stampa occidentale non è rimasta ferma un minuto e nel corso del tempo il fuoco incrociato degli organismi di stampa internazionali è divenuto diretto ed esplicito. Questi sono i titoli che possiamo leggere riguardo all’Ungheria:

Dal Guardian“L’Autunno di Budapest: lo svuotamento della democrazia sul bordo d’Europa”.

Oppure il New York Times“Quando Obama ha recentemente elencato gli stati che stanno silenziando i gruppi della società civile, l’Ungheria è stato l’unico stato Europeo ad essere stato menzionato. Washington ha imposto sanzioni e ha vietato l’ingresso a sei ufficiali Ungheresi, affermando che sono troppo corrotti per entrare in America”.

Come sempre i media sono il motore, fomentatore, dei disordini e della creazione di situazioni appetibili a forze straniere, capaci spesso di influenzare il corso degli eventi.

NED e le sue affiliate.

Come già visto in altri contesti, spesso non bastano i media e dietro ad apparenti manifestazioni spontanee (che siano primavere arabe o rivoluzioni colorate) vi è una macchina organizzativa, rodata da tempo, ormai parte integrante della politica estera americana.

Il governo degli Stati Uniti sta segretamente finanziando mezzi di informazione e giornalisti stranieri. Ci sono organi governativi – compreso il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (U.S. Agency for International Development, USAID), il Fondo Nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy, NED), il Consiglio Superiore per la Radiodiffusione (Broadcasting Board of Governors, BBG) e l’Istituto degli Stati Uniti per la Pace (U.S. Institute for Peace, USIP) – che sostengono lo “sviluppo dei media” in più di 70 paesi. In These Times ha scoperto che questi programmi comprendono il finanziamento di centinaia di organizzazioni non governative (ONG), giornalisti, uomini politici, associazioni di giornalisti, mezzi di informazione, istituti di formazione e facoltà di giornalismo. La consistenza dei finanziamenti varia da poche migliaia a milioni di dollari.

“Stiamo essenzialmente insegnando le dinamiche del giornalismo, che sia stampato, televisivo o radiofonico”, dice il portavoce di USAID Paul Koscak. “Come imbastire una storia, come scrivere in modo equilibrato… tutte quelle cose che ci si aspetta da un articolo prodotto da un professionista”.

Ma alcuni, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, la vedono diversamente.

“Pensiamo che i veri fini che si celano dietro questi programmi di sviluppo siano gli obiettivi della politica estera statunitense”, dice un alto diplomatico venezuelano che ha chiesto di non essere citato. “Quando l’obiettivo è il cambio di regime, questi programmi si rivelano strumenti di destabilizzazione di governi democraticamente eletti che non godono del favore degli Stati Uniti”.

I principali organi, dediti alla creazione delle condizioni necessarie per ottenere una situazione di pre-caos, sono essenzialmente 4:
  • NED“[Il Ned] è un programma di successo della Princeton University che supporta i dipendenti pubblici, i responsabili politici e gli studiosi di tutto il mondo che vogliono costruire governi più efficaci e responsabili in contesti difficili.”
  • CIMA“Il Center for International Media Assistance ( CIMA ) è dedicato al miglioramento degli sforzi degli Stati Uniti di promuovere i media indipendenti nei paesi in via di sviluppo in tutto il mondo”
  • USAID “E’ un’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale diretto dal governo federale degli Stati Uniti ed è l’agenzia principalmente responsabile della gestione degli aiuti civili all’estero.”
  • Freedom House“La Freedom House è una organizzazione non governativa internazionale, con sede a Washington, D.C., che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche, e diritti umani.”
Puntuale come sempre, assistiamo ad una destabilizzazione ad orologeria qualora gli apparati economico-mediatici di Washington decidano di agire prendendo di mira una nazione.

Le modalità e le motivazioni, delle proteste di questi giorni in Ungheria, sembrano sospettosamente simili a quelle degenerate a Kiev in Febbraio:

18 Novembre – Decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza oggi a Budapest e in altre città ungheresi per mostrare “indignazione” contro le politiche di destra del primo ministro Viktor Orban.

Le tensioni si sono intensificate dopo che il presidente Orban ha rifiutato di licenziare Presidente dell’Autorità Fiscale Nazionale Ildiko Vida,  accusato di corruzione da parte di funzionari degli Stati Uniti, dal momento che Orban ha respinto le accuse di corruzione

“Non possiamo pagare le tasse che tu rubi!” recitava uno degli striscioni. Altri chiedevano le dimissioni. Belint Farkas, uno studente 26enne, si è lamentato della politica estera dell’Unghieria di Orban: “Non vogliamo che Orban ci porti verso Putin e la Russia. Noi siamo un paese Ue e vogliamo stare in Europa, alla quale apparteniamo”.

Il procedimento per la creazione di queste condizioni di caos spesso lascia tracce e indizi nei mesi e negli anni precedenti.

Osserviamo cosa diceva poco tempo fa l’organizzazione CIMA:

“L’Ungherese Viktor Orban non ha appetito per la democrazia“.

Freedom House, qualche giorno fa:

“Da quando è arrivato al potere nel 2010, il governo Orbán ha attuato una serie di modifiche legislative che sono state criticate per aver minato la libertà dei media.”

Le recenti proteste nella città di Budapest hanno dimostrato che i meccanismi per un regime change sono già operativi e stanno iniziando a percorre tutte le vie necessarie per centrare questo obbiettivo.

La buona riuscita di tali azioni dipendono essenzialmente dal livello di repressione che il governo legittimo di Orban deciderà di applicare. Un tentennamento in stile Janukovyč, qualora la situazione degenerasse come accadde a Kiev, potrebbe essere fatale. Per il futuro dell’Europa, dell’Eurasia e di un mondo multipolare più bilanciato auguriamoci che Orban non commetta l’errore di indugiare troppo nel reagire a queste aggressioni straniere.
Di Federico Pieraccini

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