venerdì 6 giugno 2014

L’assalto della Corte Suprema americana ai principali diritti democratici negli Stati Uniti ha fatto segnare un nuovo capitolo questa settimana, con la mancata accettazione da parte del tribunale stesso di un delicatissimo caso relativo ad un noto reporter del New York Times. La vicenda in questione è quella di James Risen, il cui lavoro nel rivelare alcune delle manovre segrete dell’apparato della sicurezza nazionale degli USA potrebbe costargli un lungo periodo dietro le sbarre.

Rifiutandosi di deliberare sul caso “Risen contro Stati Uniti”, la Corte Suprema ha in sostanza confermato la sentenza del luglio scorso di un tribunale d‘Appello della Virginia che si era rifiutato di annullare un ordine emesso nei confronti di Risen per costringerlo a identificare la fonte all’interno del governo americano che gli aveva fornito informazioni riservate.

Il giornalista del Times era entrato in possesso di materiale classificato che descriveva come la CIA avesse cercato di ingannare l’Iran, spingendo i suoi scienziati ad accettare da un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco nucleare appositamente alterato. Questa informazione era contenuta in un capitolo del libro di Risen “State of War” del 2006 ed aveva spinto il Dipartimento di Giustizia ad aprire un procedimento penale nei confronti della presunta fonte, identificato nell’ex agente della CIA Jeffrey Sterling.

La causa aveva subito coinvolto Risen ma nel 2011 un giudice federale aveva dato ragione a quest’ultimo, affermando che un processo criminale non rappresentava una sufficiente giustificazione per rivelare le fonti e, nel caso di Sterling, le accuse mosse dal governo potevano essere dimostrate anche senza la testimonianza del giornalista.

L’amministrazione Obama aveva però fatto appello e la già ricordata decisione del tribunale di Richmond, in Virginia, aveva ribaltato il verdetto di primo grado. Due dei tre giudici assegnati al caso avevano cioè sostenuto che il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione costituisce un atto criminale.

Risen, perciò, avrebbe potuto essere costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury nel caso Sterling, dal momento che “un resoconto diretto e di prima mano… sulla condotta criminale oggetto di indagine… non può essere ottenuto con mezzi alternativi”.

La decisione della Corte Suprema di non intervenire nel caso in questione equivale ad un’approvazione sia della sentenza del tribunale d’Appello del 2013 sia della posizione del governo. A differenza dei tribunali inferiori, la Corte Suprema può infatti rifiutare le cause presentate alla propria attenzione senza offrire alcuna spiegazione. La maggior parte dei casi, anzi, viene trattata proprio in questo modo dalla Corte Suprema che può così approvare in maniera tacita i verdetti emessi dai tribunali inferiori senza apparentemente intervenire nel merito.

James Risen, da parte sua, ha sempre sostenuto di essere pronto a finire in carcere piuttosto che rivelare il nome della sua fonte. Di fronte alla Corte Suprema, il reporter premio Pulitzer ha affermato che l’attività giornalistica investigativa sulle questioni relative alla sicurezza nazionale potrebbe diventare impossibile se il governo avesse facoltà di costringere a rivelare l’identità delle fonti.

La decisione della Corte Suprema di lasciare inalterata la sentenza della Corte d’Appello di Richmond contro Risen contraddice inoltre una lunge serie di verdetti di vari tribunali americani che, al contrario, in passato hanno riconosciuto il diritto alla protezione garantita dal Primo Emendamento ai giornalisti in relazione alle proprie fonti.

Sia i precedenti verdetti che quello del luglio scorso della Corte d’Appello si sono basati su un’altra decisione della Corte Suprema: “Branzburg contro Hayes” del 1972. In quell’occasione, il supremo tribunale americano aveva in realtà respinto l’interpretazione che il Primo Emendamento possa proteggere tout court i giornalisti dall’obbligo di testimoniare imposto da un Grand Jury.

Tuttavia, uno dei giudici della Corte aveva stilato un parere nel quale invitava i tribunali a trovare “il giusto equilibrio tra la libertà di stampa e l’obbligo di ogni cittadino di fornire la propria testimonianza” se ritenuta “rivelante”.

Per oltre tre decenni, questa sentenza della Corte Suprema è stata interpretata quasi sempre a favore dei giornalisti e a sostegno di un principio democratico fondamentale. Poco dopo il lancio della “guerra al terrore”, però, il clima è cominciato a cambiare anche in questo ambito, così che la stessa sentenza è utilizzata ora sempre più dai tribunali e dal governo per perseguire quei giornalisti e le loro fonti segrete che rivelano notizie riservate, anche se di rilevante interesse pubblico.

Questa involuzione e il conseguente drammatico deterioramento del clima democratico negli Stati Uniti sono confermati anche dal fatto che l’amministrazione Obama continua a condurre una campagna senza precedenti contro le fughe di notizie dall’interno delle agenzie governative. A tutt’oggi, l’amministrazione democratica ha già avviato ben otto procedimenti giudiziari contro presunti responsabili di rivelazioni di informazioni segrete alla stampa, mentre tutte le precedenti amministrazioni combinate si erano fermate a tre.

Consapevole delle resistenze tra la popolazione e la maggior parte dei media contro un simile giro di vite la cui vittima è la libertà di stampa, il Ministro della Giustizia, Eric Holder, proprio settimana scorsa aveva affermato pubblicamente che il suo dipartimento potrebbe non richiedere l’incarcerazione dei giornalisti che si riufiutano di testimoniare.

La dichiarazione è sembrata essere un tentativo di placare le polemiche che sarebbero esplose in seguito all’imminente decisione della Corte Suprema sul caso Risen, peraltro non citato esplicitamente da Holder, anche se essa è stata esposta come una semplice ipotesi e il governo continua a riservarsi il diritto di incriminare i giornalisti che intendono difendere le proprie fonti.

Secondo i principali media americani, comunque, il governo avrebbe mostrato un certo ammorbidimento negli ultimi mesi, come confermerebbe la pubblicazione lo scorso febbraio da parte del Dipartimendo di Giustizia di nuove direttive interne volte a limitare i casi in cui l’accusa nel corso di processi possa costringere i giornalisti a testimoniare.

Le nuove norme, in realtà, sono state soltanto l’ennesima manovra diversiva dell’amministrazione Obama, visto che prevedevano il solito compromesso tra le necessità della “sicurezza nazionale e la salvaguardia del ruolo essenziale della libertà di stampa”, concendendo quindi ampia facoltà di interpretazione di una direttiva ufficialmente implementata a favore di quest’ultima.

La battaglia del governo degli Stati Uniti contro giornalisti e fonti di rivelazioni spesso esplosive è d’altra parte risultata più che evidente in questi anni con persecuzioni ai danni, tra gli altri, di Bradley (Chelsea) Manning, Edward Snowden, Julian Assange o John Kiriakou, l’ex agente della CIA processato e incarcerato per avere ammesso pubblicamente il ricorso a metodi di tortura negli interrogatori di presunti terroristi.

La guerra di Washington alla libertà di stampa, infine, era stata palesata clamorosamente anche lo scorso anno, quando era circolata la notizia che il Dipartimento di Giustizia aveva disposto segretamente l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di decine di giornalisti della Associated Press nell’ambito di un’indagine sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato terroristico sventato dalle autorità.

MARTEDÌ 03 GIUGNO 2014 
di Michele Paris

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