lunedì 7 aprile 2014

La Banca centrale europea di Mario Draghi ci ha abituato da tempo alla solita sceneggiata. Nonostante i nostri “sforzi”, ci spiegano da Francoforte, l'economia europea non cresce come dovrebbe crescere. Dove gli “sforzi” in questione sono rappresentati dalla enorme liquidità buttata nel sistema finanziario, ossia nelle tasche dei banchieri, ad esempio attraverso il sistema del Long Term Refinancing Operation messo in atto a suo tempo.

Aiuti che non sono stati usati per finanziare le imprese ma soltanto per salvare le banche che, sulla scia di quelle anglofone, avevano preso a giocare con i derivati ed altri titoli similari con il risultato di trovarsi a pezzi sia dal punto di vista finanziario che patrimoniale. Ma, a fronte di una economia che stenta a riprendersi e del pericolo concreto di un fenomeno come la deflazione che ne è la conseguenza, Draghi non intende cambiare approccio.

In marzo l'inflazione annua ha toccato lo 0,5% nell'Eurozona e la Bce, grazie anche ai propri interventi, spera che nel 2016 tocchi il 2% che è considerato un livello fisiologico e tale da sostenere una accettabile crescita economica. Più liquidità nel sistema, diceva Keynes e non solo lui, comporta un aumento del livello dei prezzi. Draghi ha annunciato ancora una volta, lo sta facendo da mesi, che la Bce è pronta a misure “non convenzionali” come l'acquisto di titoli pubblici. Avendo lasciato allo 0,25% il tasso di riferimento, le altre opzioni si concretizzeranno in una altra immissione di liquidità nel sistema da cui avrà benefici soltanto il sistema finanziario.

Per un Draghi cresciuto alla scuola della Goldman Sachs questa attenzione verso le banche fa parte del suo Dna. Poi, giusto per fare vedere che si preoccupa anche dell'economia “reale”, il presidente della Bce ha messo sotto accusa gli scarsi risultati raggiunti dall'Italia, come da altri Paesi, sulla via della riduzione del debito pubblico. E a seguire, ha lamentato l'aumento della disoccupazione che un Paese come l'Italia non riesce a contrastare con una seria riforma del mercato del lavoro.

Stiamo tenendo sotto controllo la situazione, ha insistito, ma i Paesi membri dell'Eurozona devono realizzare le riforme “strutturali”. Le banche, sarebbe il caso di rispondergli, dovrebbero a loro volta tornare finalmente a fare credito alle piccole e medie imprese. Un monito che l'ex Goldman Sachs si è ben guardato dal lanciare perché la responsabilità dell'attuale crisi è in buona parte sua considerato che non aveva vincolato al finanziamento dell'economia “reale” tutti i soldi (mille miliardi di euro) versati alle banche europee tra il novembre 2011 e il marzo 2012. Soldi di fatto regalati, in quanto scontavano un tasso di appena l'1% annuo.

A bloccare la ripresa in Italia è infatti la stretta creditizia che sta strozzando le famiglie e le piccole e medie imprese che rappresentano la struttura portante del nostro sistema industriale. Se Draghi si diverte nel ricordare a Renzi e Padoan che devono tagliare il debito pubblico all'interno del Patto di Stabilità (portarlo entro 20 anni al 60% sul Pil) e azzerare il disavanzo in tre anni, dall'Ocse è arrivato un avvertimento all'Italia che è gravido di conseguenze spiacevoli. Dicono i tecnocrati di Parigi che da qui al 2023 ci vorrebbe un avanzo primario annuo medio del 5%. Se si tiene conto che quello del 2012, grazie ad una barca di tasse, è stato appena del 2,2%, ne consegue secondo l'Ocse che quel traguardo è impossibile da raggiungere con l'attuale politica economica.

Il ministro Padoan, che dell'Ocse è stato capo economista, potrà così proporre la misura che da tecnico suggeriva all'Italia. Quella di una tassa patrimoniale straordinaria con la quale tamponare i buchi dei conti pubblici. Una misura che verrebbe giustificata con il permanere di una bassa crescita economica che taglia le entrate fiscali e contributive. Ma che finirebbe per ammazzare il malato. Cioè noi.

Irene Sabeni

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