giovedì 10 gennaio 2013

L'umano è inutile. Sporca, inquina ed ormai, grazie alla tecnologia non serve più a niente.
Quindi, passiamo alla tosatura finale, magari tramite programmi di austerità, concentrando gli averi delle masse nelle mani di quell'1% che governa il mondo. Dopo di che potranno testare magari qualche nuovo virus, utile per per sfoltire questa fastidiosa marmaglia e riportare il numero degli umani al di sotto di 500 milioni di individui. Numero inciso da questi illuminati despoti sulle Guidestones in Georgia. Non è  poi così complicato realizzare il sogno del Principe Filippo di Edimburgo, non è necessario che si reincarni in un virus per decimare la popolazione mondiale, è bastato "liberalizzare" la produzione di virus letali. Per i "sopravvissuti" eletti, cosa inventeranno? La trasformazione in transumani? Umani "migliorati", magari che non
necessitino di "nutrimento" e possano "spegnersi" a comando?
Umani 2.0 capaci di ricevere ordini tramite nanotubi? Leggasi anche:
Scie chimiche e trasferimento orizzontale genetico: la connessione con gli organismi transgenici? 
Troppe volte la scienza, il progresso sono stati fatti amare dalle proprie vittine in nome di false promesse di voler migliorare la loro esistenza. Nell'ultimo secolo specialmente, abbiamo constatato chi ne ha beneficiato e chi ha subìto tale "progresso".
Barbara

Video: Avete uno di questi lavori?
Vi presentiamo i vostri nuovi colleghi.
“Basta disoccupazione! Le macchine hanno bisogno di lavorare per portare la pagnotta a casa dalla famiglia”

La civiltà delle macchine/1

Stampanti a tre dimensioni, in grado di fabbricare oggetti su misura. Nanomateriali.

Macchine che si aggiustano da sole. Migliaia di robot sulle catene di assemblaggio degli iPad. Tutto gestito da software sempre più sofisticati. La fabbrica del futuro è alle porte. Gli esperti dicono che è la terza rivoluzione industriale, paragonabile per importanza alla macchina a vapore, poi l’elettricità, infine la meccanizzazione dell’agricoltura. Dal fondo della crisi economica in cui ci troviamo, queste notizie epocali non sono quelle di cui sentiamo il bisogno. Tuttavia, di fronte all’alba di un’era nuova, può starci un brivido di eccitazione. Accompagnato, però, da una domanda inquietante: quando verrà il nuovo giorno, noi, esattamente, che lavoro faremo? (segue dalla copertina) 

IL CASO «Una spettacolare prova del centravanti Lorenzo Dalpià ha portato la Moglianese ad una rotonda vittoria per 3 a 0 sulla Santantonio, in una partita cruciale per la promozione. Dalpià ha segnato due gol, uno con un potente sinistro, l’altro di testa nel primo tempo, mettendo a segno anche un rigore nella ripresa. La difesa della Moglianese ha barcollato a lungo sotto gli attacchi della Santantonio, ma il portiere Renzoni, in almeno cinque occasioni, ha impedito agli avversari di andarea segno. Al resto ha pensato Dalpià, regalando alla Moglianese una vittoria che mancava da tre domeniche». La prosa non è cristallina, ma raramente lo è, nelle pagine interne dei giornali sportivi. Il punto è che, a scriverlo, non è stato un annoiato, vecchio cronista e neanche un ragazzino alle prime armi. Il testo (o, meglio, il suo originale, riferito ad una intraducibile partita di baseball fra università) è stato redatto da un computer, sulla sola base delle statistiche della partita. Se, come è probabile, il futuro professionale di alcune migliaia di giornalisti interessa poco, si può andare, invece, sul sito online di H&M, una catena svedese di grandi magazzini. La ragazza che appare in foto ha spalle ben modellate, un sorriso intrigante, ventre piatto, cosce ben tornite e, nell’insieme, fa fare bella figura al bikini che reclamizza. Sarebbe bello sapere come si chiama e qual è il suo numero di telefono.

Be’, è inutile chiederselo. La ragazza, non solo non rischia l’anoressia, ma non ha neanche un nome o un telefono. È una modella virtuale, disegnata al computer.

Però, con una buona laurea, tanti saluti al computer, no? In realtà, dipende. Nel 1978, per una causa antitrust, uno studio legale ameComputer che guidano le automobili Automi che assemblano gli iPad Spot pubblicitari con donne create in Rete che sostituiscono le modelle in carne e ossa. È la fabbrica del futuro e rischia di sminuire il ruolo dell’uomo nel mondo del lavoro. Le imprese non assumono più: preferiscono utilizzare le macchine “Una deriva pericolosa” scrivono gli autori di un fortunato e-book ricano esaminò6 milioni di documenti, al costo di 2,2 milioni di dollari, come corrispettivo del lavoro di decine di avvocati. Nel 2010, in una causa analoga, la Blackstone Discovery ha esaminato 1,5 milioni di documenti, per un costo di 100 mila dollari.

Via computer, naturalmente, e tanti saluti agli avvocati.

Prima i robot hanno sostituito gli operai alle catene di montaggio, poi l’informatica ha eliminato commessi, fattorini, centraliniste, contabili. Adesso, la rivoluzione del computer sta risalendo, sempre più velocemente, la scala delle competenze. Brian Arthur, un guru della tecnologia, definisce la rete di rapporti fra macchine che sperimentiamo sempre di più ogni giorno – dal check-in in aeroporto al bancomat – la “seconda economia” e prevede che, prima di vent’anni, avrà dimensioni paragonabili all’economia reale. In realtà, dicono Eric Brynjolfsson e Anfrew McAfee, due ricercatori del Mit di Boston, rischia di mangiarsela. Nei primi dieci anni di questo secolo, l’economia americana non ha aggiunto neanche un posto di lavoro in più al numero totale già esistente: era successo solo dopo il 1929. La crisi del 2008, spiegano in un ebook, Race Against The Machine, ci aiuta a capire perché. La ripresa dell’occupazione dopo la recessione non è mai stata, nella storia recente americana, così lenta. Contemporaneamente, già nel 2010, gli investimenti delle aziende in macchinari erano tornati quasi ai livelli pre-crisi, la ripresa più rapida in una generazione. Le imprese, negli ultimi mesi, hanno smesso di licenziare, ma assumono poco. Prendono macchine, non persone.

Dietro l’incancrenirsi della disoccupazione, in altre parole, secondo Brynjolfsson e McAfee, c’è, accanto alla componente ciclica della recessione, un elemento strutturale: troppa tecnologia, troppo in fretta. Le capacità e le potenzialità dell’informatica stanno crescendo, sotto i nostri occhi, a velocità supersonica e non smettono di accelerare, fino a superare, nel giro di mesi, barriere che sembravano, ancora cinque-sei anni fa, insormontabili. Nel 2004, nel deserto del Mojave, in California, fu organizzata una corsa per macchine senza guidatore. Obiettivo, percorrere 150 miglia attraverso un deserto desolato. La macchina vincitrice non arrivò a otto miglia e ci mise anche svariate ore. Solo sei anni dopo, nel 2010, Google poteva annunciare di aver fatto partire una pattuglia di Toyota Prius, che avevano percorso 1000 miglia, su strade normali, senza alcun intervento da parte del guidatore. Un’impresa resa possibile dall’analisi della montagna di dati di Google StreetView e di Google Maps e dal riscontro degli input da video e radar, tutto processato da un apposito software all’interno della vettura. Le macchine di Google, sottolineano i due ricercatori del Mit, dimostravano che il computer poteva superare la barriera del “riconoscimento degli schemi”, ovvero era capace di reagire ad una situazione esterna in costante mutamento, come il traffico, e priva di regole prefissate. Anche un’altra barriera, quella della “comunicazione complessa” è stata superata. Geofluent è un software, realizzato in collaborazione con l’Ibm, che consente ai clienti, in una chat di supporto per prodotti dell’elettronica, di interagire con l’operatore, ognuno nella propria lingua.

«Come faccioa far partire la stampante?» chiede, in cinese, il cliente cinese. «Così» gli risponde, in inglese, l’operatore dalla sua stanza di Boston. Geofluent traduce avanti e indietro. Quando l’avranno collegata anche al riconoscimento vocale potremo salutare perfino l’ultima ridotta dei disoccupati disperati: il call center. Sul suo blog, Econfuture, Martin Ford, un imprenditore di Silicon Valley, calcola che almeno 50 milioni di posti di lavoro, circa il 40 per cento del totale dell’impiego Usa, possano essere sostituiti, in un modo o nell’altro, dall’informatica. Brynjolfsson e McAfee ritengono che, in gran parte, questo avverrà nei prossimi dieci anni.

Non è la prima volta che l’umanità affronta sconvolgimenti simili. La prima rivoluzione industriale gettò per la strada una massa di lavoratori tessili, sostituiti dalle macchine. Un secolo dopo, l’arrivo dei trattori fece la stessa cosa per milioni di braccianti e contadini. In tutt’e due i casi, l’aumento di produttività dovuto alla meccanizzazione rilanciò l’economia e i disoccupati trovarono nuovo lavoro altrove.

Ma adesso? I luddisti – bande di lavoratori che sfasciavano le macchine che stavano togliendo loro il salario – sono da sempre oggetto di scherno, da parte degli economisti. Ora, però, anche un giornale ultraliberale come l’ Economist, ha dei dubbi. «I luddisti avevano torto perché le macchine erano strumenti che aumentavano la produttività e gran parte dei lavoratori poteva passare a gestire proprio quelle macchine.

Ma che succede se le macchine stesse diventano i lavoratori? A questo punto, l’errore luddita sembra molto meno errato».

Il boom dell’informatizzazione favorirà i settori industriali direttamente coinvolti (un elemento di qualche interesse per l’Italia, che ha una buona industria di robotica). Ma la massa dei lavoratori normali, che non né la vocazione, né la possibilità, di trasformarsi in ingegnere informatico? Brynjolfsson e McAfee sottolineano che l’aumento di produttività della terza rivoluzione industriale aumenterà i beni prodotti e il benessere complessivo della società. Ma nessuna legge economica, osservano, prevede che questi benefici siano equamente ripartiti. Il processo in corso favorirà sproporzionatamente i detentori di capitale (cioè delle macchine) ai danni della (ex) forza lavoro, cioè i salariati, innescando un drammatico aggravamento delle diseguaglianze, che, probabilmente, è già in corso.

Con un paradosso, indica Ford. La produttività aumenta vertiginosamente, ma i consumi molto più lentamente. Anzi, si ridurranno, se i salariati si ritroveranno senza salario. Chi consumerà tutti questi beni, prodotti in misura sempre maggioree in modo sempre più efficiente? La terza rivoluzione industriale, secondo gli autori di Race Against The Machine, sta arrivando troppo in fretta, perché la società abbia il tempo di adeguarsi e riorganizzarsi. I braccianti, cacciati nel primo ’900, dai trattori, andarono a lavorare nelle fabbriche. Ma le fabbriche della terza rivoluzione industriale sono occupate da robot e computer e lo sono, anche, gran parte degli uffici. L’ex contabile, la mancata modella, il giornalista o l’avvocato silurato non possono andare tutti, in massa, a programmare Google Maps o a disegnare nuovi chip. «Sarebbe – dice Ford – come pensare che tutti i braccianti potessero essere riassunti a guidare trattori. Non funziona».

La civiltà delle macchine 2.0 – La nostra vita gestita da un server
È un normale lunedì di febbraio e, alla borsa del petrolio di New York, mancano una ventina di minuti al momento cruciale del fixing della quotazione di chiusura del barile. Improvvisamente, Globex, la piattaforma elettronica su cui passa il 99 per cento delle transazioni sui futures americani del petrolio, si blocca. Gli schermi degli operatori sono congelati: non si comprae non si vende più nulla. Lo sconcerto dura poco: gli operatori si alzano dalle scrivanie e cominciano a scendere, dai piani superiori, alla vecchia sala di contrattazioni del Nymex. E ricominciano a lavorare. Come ai vecchi tempi. Per un po’ , sembra di assistere alla scena finale di “Una poltrona per due”, il film di John Landis, con Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Foglietti che girano, mani che si alzano con una, due, tre dita levate, qualche strizzata d’ occhio. Ma “Una poltrona per due” è un film del 1983 e, da vent’ anni, le borse non funzionano più così. Gli operatori del Nymex si sono, forse, anche divertiti, ma se la stessa cosa fosse accaduta alla borsa del petrolio di Londra, dove la sala contrattazioni, semplicemente, non c’ è, il mercato del greggio sarebbe rimasto paralizzato. Perché, oggi, la finanza funziona via computer. Il terminale registrai prezzi che circolano sul server e compra o vende, quando il prezzo corrisponde a quello che, secondo le equazioni che ha incorporate, può dare un profitto. A questo punto, propone l’ affare al terminale corrispondente. Questo, se sta bene alle sue equazioni, accetta. I due segnalano la transazione al server della borsa, che provvede a registrarla. (segue dalla copertina) Iserver delle due aziende digeriscono il mutamento di portafoglio, altri server calcolano il flusso di denaro in entrata o in uscita e un altro server ancora, se ci fosse la Tobin tax, si preoccuperebbe anche di computare e pagare la tassa. Tutto nel giro di nanosecondi, troppo veloce per l’ essere umano. Ci stanno tagliando fuori? Dai benevoli automi di Asimov (“Io, robot”) all’ inquietante Hal di Kubrick (“Odissea nello spazio”), fino al perfido Virax del recentissimo thriller di Robert Harris (“L’ indice della paura”) che agisce proprio nel mondo degli hedge funds e della finanza, non è un incubo nuovo. Ma il quesito su chi dominerà il mondo possiamo lasciarlo, per ora, alla fantascienza. Il punto è capire se quello a cui stiamo assistendo – un po’ dandolo per scontato, un po’ senza valutarlo appieno – sia quella profonda rivoluzione dell’ economia, che un guru delle tecnologia, William Brian Arthur paragona al boom delle ferrovie che, nella seconda metà dell’ 800, proiettò gli Stati Uniti da modesta economia agricola al rango di massima potenza mondiale. Dalla Rivoluzione Industriale in poi, non è più avvenuto nulla di simile. Perché la finanza d’ assalto del “flash trading” è solo un capitolo – e neanche il più importante – della trasformazione in corso. Vent’ anni fa, se entravate in un aeroporto, andavate al banco della compagnia aerea e presentavate il vostro biglietto di carta ad una signorina. Questa vi registrava su un computer, segnalava al server che eravate arrivato, controllava i vostri documenti e prendeva in consegna il bagaglio. Oggi, quando arrivate in aeroporto, cercate una macchinetta. Ci infilate una carta di credito e, nel giro di tre-quattro secondi, vi restituisce carta d’ imbarco, ricevuta e l’ etichetta per il bagaglio. Tutto questo, naturalmente, lo sapevamo già. Dov’ è la svolta, il punto chiave? Il punto chiave, dice Arthur è proprio in quei tre-quattro secondi. Nel momento in cui infilate la carta di credito, scatta una fitta conversazione, che si svolge interamente fra macchine. Una serie di computer, controlla e confronta il vostro nome, lo stato del volo, la vostra storia di viaggi e possibili problemi di sicurezza. Valuta la distribuzione del peso sull’ aereo per assegnarvi il posto, decide se avete diritto o meno alla sala Vip, pondera le coincidenze con altri voli e cambia il percorso previsto, se, magari, un volo è stato annullato.È una conversazione fra server che parlano con altri server, che parlano con satelliti, che parlano con computer (magaria Los Angeles, dove state andando, per annunciare che siete in regola con il visto americano), attraverso una batteria di switchese router che convogliano avanti e indietro l’ informazione, via via aggiornata. Lo stesso avviene se spedite una merce. Una volta, ci sarebbe stato qualcuno con una lista in mano e la matita dietro l’ orecchio, che avrebbe spuntato il collo sul suo elenco, controllato etichette, riempito formulari e anche annunciato per telefono il carico alla destinazione successiva. Oggi uno scanner legge un codice a barre e spedisce il carico automaticamente, controllando depositi e destinazioni. Di fatto, cose, persone, processi esistenti nell’ economia fisica, quella che tocchiamo e abbiamo sott’ occhio vengono assunti in una economia virtuale, dove vengono elettronicamente lavorati e processati, fino a che non vengono restituiti all’ economia reale. Questa economia digitale non produce nulla di tangibile: non rifà i letti in un albergo, non versa il succo d’ arancia nel mio bicchiere, non posa i mattoni di un muro, non monta i fari su un’ auto. Ma, osserva Arthur, rappresenta una fetta cospicua dell’ economia: aiuta gli architetti a disegnare edifici, controlla vendite e inventari, esegue transazioni e operazioni bancarie, controlla attrezzature, emette fatture, fornisce anche diagnosi cliniche. In un articolo sulla rivista di una grande società di consulenza, la McKinsey, Arthur definisce l’ economia digitale, “la seconda economia”. “Vasta, silenziosa, connessa, invisibile, autonoma (nel senso che è progettata da esseri umani, che però non la gestiscono direttamente), globale” questa economia è in grado di adattarsi da sola al mutare delle circostanze, di autoorganizzarsi, autostrutturarsi e anche autoaggiustarsi. Il cervello dell’ economia è ancora quello umano, ma il sistema nervoso è questa seconda economia digitale. Inseguendo l’ evoluzione di Internet, ne abbiamo annotato il passaggio dal pp (persona a persona), al b-b (azienda ad azienda) al p-b (persona-azienda, l’ e-commerce). Ma ci è sfuggito che la trasformazione più profonda era l’ mm: macchina a macchina. Quanto è grande, quanto pesa la seconda economia? Secondo un altro guru della tecnologia, Yuri Milner, attualmente ci sono nel mondo 2 miliardi di persone connesse a Internet, che diventeranno 5 miliardi nel 2020. Ma le macchine connesse (pc, telefonini, server) connessi sono già oggi 5 miliardi e diventeranno 20 miliardi nel giro di dieci anni. Arthur tenta di calcolare quanto valga tutto questo. Dal 1995, quando decolla il processo di informatizzazione, la produttività del lavoro è cresciuta, negli Usa, del 2,5-3 per cento l’ anno. Probabilmente fra i due terzi e il 100 per cento di questa crescita è dovuta proprio all’ informatizzazione. Diciamo, dunque, che all’ espansione del digitale va ricondotto un aumento del 2,4 per cento della produttività del complesso dell’ economia. Un’ economia che cresce del 2,4 per cento l’ anno, raddoppia in trent’ anni: nel 2025, la seconda economia sarà grande come l’ economia reale del 1995, pre-digitale. E’ un calcolo approssimativo e anche assai discutibile. Ma fornisce un’ idea dell’ ordine di grandezza di cui stiamo parlando: la seconda economia non è solo una marginale aggiunta all’ economia reale. Le conseguenze sono profonde e non tutte piacevoli. Una produttività che cresce del 2,4 per cento può voler dire che, con lo stesso numero di lavoratori, si produce il 2,4 per cento in più. Ma anche che si produce la stessa ricchezza, con il 2,4 per cento di lavoratori in meno. In ogni caso, la variabile sono i posti di lavoro. Non è la prima volta, negli ultimi due secoli, in cui il mondo si è trovato ad affrontare processi simili. La meccanizzazione dell’ agricoltura ha tagliato l’ occupazione agricola e la gente è andata a lavorare nell’ industria. La meccanizzazione dell’ industria ha tagliato l’ occupazione nell’ industria e la gente è andata a lavorare nei servizi. Ma adesso? Fattorini, magazzinieri, contabili, telefoniste, dattilografe sono tutti lavori inghiottiti dalla seconda economia. La società digitale del futuro sarà più prospera ma offrirà meno posti di lavoro. Come Robert Harris fa dire al terribile Virak nello snodo finale de “L’ indice della paura”: “L’ azienda del futuro non avrà lavoratori”. O, fuori dalle visioni apocalittiche, molto pochi. A Facebook, sottolinea Milner, ci sono 700 ingegneri per prendersi cura di oltre 750 milioni di utenti. In generale, una grande azienda del mondo di Internet fattura 1 milione di dollari per addetto, quando un’ azienda del mondo non virtuale si ferma a 100-200 mila dollari. L’ economia digitale sembra suggerire un futuro di pochi ricchi e molti poveri, perché il metodo tradizionale di distribuzione della ricchezza – posti di lavoro e stipendi – si è largamente inceppato. Bisognerà inventarsi qualcos’ altro.

MAURIZIO RICCI



Tratto da: Video: Avete uno di questi lavori? | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/01/06/video-avete-uno-di-questi-lavori/#ixzz2HFnIfAdu 
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

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