domenica 4 novembre 2012

Questa è la terribile e triste verità di ciò che avviene in Siria, filtrata dagli occhi del nostro amico siriano Rustam Chehayed, da uno dei milioni di uomini e donne che hanno vissuto e vivono ancora la drammatica sofferenza che attanaglia chiunque veda da quasi due anni, ogni giorno, la propria terra dilaniata da migliaia di mercenari, spesso stranieri, sostenuti dalle potenze occidentali e pronti persino alle più crude atrocità contro la popolazione. Ve la proponiamo senza alcuna
censura.
La Redazione


I miei primi tre giorni in città


Atterrato a Beirut, per l’assenza di compagnie aeree e di voli diretti dall’Italia verso Damasco a pochi giorni dagli attentati che hanno insanguinato due importanti quartieri a maggioranza cristiana delle due capitali mediorientali, finalmente dopo 4 mesi di assenza eccomi di nuovo a Damasco dopo più di quattro ore di macchina per raggiungerla, a causa dei numerosi controlli e posti di blocco dell’esercito siriano sulla strada (ne ho contati più di 15). Durante il percorso, alle porte di Damasco l’autista del taxi è stato costretto a fare una deviazione a causa dell’esplosione di una bomba nella zona di Sabbura. Per sdrammatizare il tassista ringrazia una signora palestinese anche lei presente sul taxi con i suoi cinque bambini (età media dei figli 4 anni, dal loro abbigliamento capisco che la famiglia non navigasse proprio nell’oro) per avere sbagliato a compilare alcuni fogli al valico di frontiera che ci hanno fatto ritardare l’arrivo al valico dalla parte libanese di circa trenta minuti. Altrimenti, secondo quanto calcolava l’autista, avremmo potuto essere anche noi colpiti dall’esplosione. La donna, con la quale ho scambiato due chiacchere in assenza dell’autista, si lamentava di come i prezzi del trasporto siano raddoppiati dalle normali 1.000 lire siriane a 2.000 lire attuali per persona, oltre ad avermi detto di essere diretta e di ritorno con i suoi figli a Yermuk, il noto campo profughi di Damasco da dove era scappata due mesi prima verso il Libano. Inoltre, la donna sottolineava il fatto di come non si fosse trovata bene in Libano. Durante una breve sosta in una specie di autogrill, la donna chiedeva all’autista di cambiarle dei soldi. Mentre andava coi figli a comprare da bere e qualche cioccolata, l’autista libanese, proveniente dalla zona di Baalbakh, mi racconta come queste famiglie siano state ospitate in Libano con l’aiuto del partito di Saad al-Hariri, che concede 500 dollari mensili come aiuto e come incentivo ad ogni famiglia allo scopo di portarli via dalla Siria.
Finalmente arrivati dentro Damasco, l’autista libanese a causa della deviazione non riesce a portarci dove di solito si fermano i taxi nella loro stazione e ci lascia nella zona di Muhajirin. A quel punto, con i bagagli alla mano, sono costretto a prendere un altro taxi che mi porterà a destinazione. Anche in quel caso, la corsa è aumentata notevolmente di prezzo. Dalle normali 75 lire siriane, che spesso pagavo per quel tipo di tragitto, il tassista siriano ne chiedeva stavolta 300. Accetto e arrivo a destinazione.
Il quartiere dove risiedo – che per motivi di sicurezza evito di citare, viste anche le svariate minaccie di morte che ho ricevuto in quest’anno e mezzo e più di crisi siriana da parte dei soliti oppositori residenti in Italia e in contatto con le milizie armate che insanguinano il Paese – è pieno di soldati, posti di blocco e ronde di civili armati a protezione delle nostre case e della nostra gente. Sono quasi le 23.00 e le strade sono semi-deserte. Un mio parente smanioso di rivedermi prende l’automobile e viene a salutarmi dopo avere passato tutti controlli all’ingresso del quartiere. A mezzanotte passata, mi racconta di come lui e la sua famiglia siano vittime di una pesante crisi economica che li ha messi in ginocchio. Da qualche anno aveva comprato una casa (il sogno di una vita), con un finanziamento della Banca Commerciale Siriana, e sono ormai mesi che non riesce a pagare la rata di circa 200 euro mensili. Apro il mio portafogli e gli protendo 600 euro, sperando che possano essergli d’aiuto o almeno farlo respirare per un po’, pur sapendo che non risolveranno in alcun modo i suoi problemi. Il padre, ormai vecchio e malato, risiede sulle alture fuori Damasco ed è un grande apicoltore che produce da molto tempo un delizioso miele regalatomi ad ogni mia visita. Gli è stato stato bruciato il suo allevamento di api per un insieme di danni pari a quasi quattro milioni di lire siriane. Mi racconta, poi, di come un mese fa i miliziani dell’EsL abbiano tentato di intrufolarsi nel villaggio di suo padre. Mi ha parlato di circa una trentina di uomini ben armati che fortunatamente sono stati respinti dagli abitanti del vilaggio, i quali per precauzione si erano armati col sostengo dei soldati dell’esercito regolare. Mi dice che la metà del gruppo di miliziani armati dell’Esl sono stati uccisi e gli altri arrestati. Gli chiedo se questi miliziani fossero stati tutti siriani e lui mi risponde che tra di loro c’erano soprattutto libici e tunisini. Presi dalla chiaccherata, l’ora si è fatta tarda: era notte fonda e ho così invitato questo mio parente a restare da me, perché la sua casa è lontana ed è pericoloso girare da solo per la città a quell’ora.
La mattina seguente, dopo colazione, ci salutiamo. Un amico, che per precauzione chiamerò con il nome di fantasia Bilal, mi chiama e mi dà appuntamento in un parcheggio della zona, dicendomi che entro pochi minuti sarebbe arrivato.
Mi affretto e lo aspetto nel punto prestabilito, il tempo è nuvoloso e ho come l’impressione che ci siano tuoni e rumore di pioggia intensa. Eppure, dopo pochi secondi, mi rendo conto quelli che sento non sono rumori di lampi e tuoni ma esplosioni e raffiche di mitra. Poche ore più tardi saprò che c’era stata una forte esplosione nel quartiere Tadamon e alcuni scontri a Duma, ovvero nella periferia dove è stata commessa l’ennesima carneficina ad opera dei terroristi armati, come di consueto ormai, poche ore prima della riunione al consiglio di sicurezza dell’ONU. Negli occhi della gente scesa in strada, noto un certo timore, e nell’aria sento odore di morte, ma tutti esasperati dalla situazione fanno finta di nulla cercando di vivere la vita di tutti i giorni: la gente va al lavoro (almeno chi ancora ce l’ha), sapendo che forse non tornerà a casa sana e salva, il mio amico Bilal tarda ad arrivare, io stesso intimorito dal rumore degli spari decido di sedermi tra due macchine in sosta, in modo da non essere visto e, nel caso le sparatorie si dovessero avvicinare al punto dove mi trovo, non esserne colpito; intanto in cielo, oltre alle nuvole nere di fumo in lontananza, si sente il rumore di aerei militari che vanno e vengono. Dopo più di quaranta minuti che aspetto, Bilal ancora non si presenta. Gli telefono preoccupato affinché non gli sia successo qualcosa e, per fortuna, mi rassicura dicendomi che c’è molto traffico e che la circolazione è rallentata anche per via dei numerosi posti di blocco: finalmente dopo altri trenta minuti arriva ma non è solo.
Con lui c’era un uomo che, per le medesime ragioni che ho citato sopra, chiameremo Shadi. Si presenta e li invito entrambi a pranzo. Sono le due del pomeriggio, il mio stomaco inizia a lamentarsi. Durante il tragitto a piedi verso il ristorante, Bilal mi racconta di come qualche mese fa ha abbandonato la sua residenza nel quartiere Caboun, dove per diversi giorni era rimasto intrappolato insieme alla sua famiglia senza acqua né elettricità, prima dei pesanti scontri tra l’esercito regolare e le milizie armate. Bilal mi racconta che lui e la sua famiglia, composta anche da tre bambini molto piccoli, hanno abbandonato la vecchia abitazione portando appresso solo i vestiti che avevano addosso, spiegandomi come i terroristi tenessero in “ostaggio” il quartiere e i civili prima dell’ingresso dell’esercito regolare, che ha atteso la completa evacuazione della popolazione innocente prima di iniziare la battaglia vera e propria. Ricordo ancora di come ad agosto, dopo aver visto le immagini in rete, con morti per le strade, elicotteri abbattuti, abitazioni distrutte, chiamai mezza Damasco per avere sue notizie, visto che il suo telefono era rimasto spento per settimane… Finché un amico comune non mi rassicurò che si era messo in salvo e che si era trasferito fuori Damasco.
Arriviamo al ristorante e quando chiedo a Shadi cosa volesse mangiare. Notai in lui qualcosa di strano. Mi diceva che non aveva appetito e parlava continuamente al telefono. Quando si sedeva vicino a noi teneva le mani sulla testa, allora decisi di chiedergli che cosa lo turbasse così tanto. Quello che mi raccontò mi rattristì molto. Era in pensiero per un suo cugino che era stato rapito vicino a Deraa. Suo cugino era un militare di ufficio nella zona di Swedaa a sud della Siria e durante un’uscita premio si era spostato a Deraa per raggiungere la famiglia che abita fuori Damasco, proprio dove si è trasferito Bilal. Purtroppo, questo ragazzo era stato prelevato presso un posto di blocco formato dai miliziani dell’EsL, da un bus di linea che lo stava portando verso Damasco. Shadi, lacrime agli occhi, mi raccontava che suo cugino aveva cercato di non farsi riconoscere ma probabilmente qualcuno aveva informato i miliziani della sua presenza sull’autobus, tanto che il cugino di Shadi e altri due militari furono fatti scendere dal pullman e portati via dai miliziani. Dopo qualche giorno questi mercenari avvertirono la famiglia, chiedendo inizialmente 10 pistole per liberarlo. La sua famiglia non sapeva come rimediare 10 pistole e allora si è rivolta al suo superiore nell’ufficio militare dove era di servizio. Il suo superiore, al telefono con gli aguzzini, disse di avere le pistole ma quando chiese loro dove potere incontrarsi, i sequestratori chiusero il telefono che rimase spento. Passati alcuni giorni, si fecero nuovamente sentire chiedendo tre milioni di lire siriane alla famiglia in cambio della sua liberazione. Non avevano quella somma da consegnare così Shadi e un altro cugino riuscirono ad arrivare a Deraa e a mettersi in contatto con i sequestratori. Ci fu una discussione faccia a faccia, nella quale i due non ammisero mai di essere partiti con sole 400.000 lire siriane, cercando di trattare sul prezzo da pagareò. I terroristi non accettarono quella somma e chiamarono un tassista loro complice per riaccompagnarli alle porte di Damasco, dove avrebbero dovuto procurarsi tutta la somma richiesta. Questo coraggioso cugino, però, fu abbandonato a metà strada dal tassista in piena notte, perchè probabilmente in quel punto del tragitto c’erano altri miliziani pronti a rapire anche lui. Eppure, con una prontezza di riflessi eccellente e con un po’ di fortuna, l’uomo inizialmente riuscì a nascondersi restando fermo a pancia in giù, dentro una specie di fossa, al fine di non essere visto. Rimase lì per circa un’ora fino a quando al passaggio di un altro taxi riuscì a mettersi in salvo.
Non sapevo in che modo confortarlo. Shadi non mangiò niente. Prima di salutarlo gli augurai che arrivassero belle notizie e dopo qualche ora ci salutammo. Oramai si era fatto buio e finalmente i due mi telefonarono per dirmi che erano arrivati al villaggio dove abitano. Il giorno seguente, Bilal tornò in città con il cugino coraggioso di Shadi, che mi confermò quello che lui mi aveva raccontato il giorno prima, ma con una brutta notizia: i sequestratori gli avevano telefonato dicendo che stavano bevendo un caffè all’anima dell’uomo rapito, che era morto (lo avevano ucciso). Anche Bilal era evidentemente scosso dalla notizia, eravamo tutti e tre molto giù di morale e mi sentivo quasi in colpa per quello che avevo detto a Shadi il giorno precedente, prima di salutarlo. Inoltre il giorno dopo sarebbe inziata la festa di Eid al Adha, e non avevano avvisato Shadi della brutta notizia. Nel frattempo, mentre eravamo in auto, siamo stati fermati da un poliziotto del traffico che ha voluto controllare i documenti della macchina, dopo una manovra spericolata di Bilal. Scopri che gli erano stati sequestrati da oltre un mese perché Bilal non aveva pagato una multa (d’altronde non aveva neanche i soldi per pagarla), ma fortunatamente, grazie all’amnistia generale del presidente Bashar al-Assad di qualche giorno prima, il poliziotto ci disse che la somma da pagare si era azzerata e che Bilal poteva andare alla centrale a ritirare i suoi documenti per non incappare in altre multe. Bilal, seppur triste per il cugino di Shadi, per qualche chilometro non fece altro che ringraziare il presidente.
Capii subito la situazione disastrata di Bilal, che non aveva una lira in tasca. Allora decisi di mettere mano al portafoglio e gli regalai 10.000 lire siriane, l’equivalente di circa 100 euro e mi portò subito con lui a fare compere per la festa del Eid al Adha nell’antico e famoso mercato di Damasco Al Hamidye, dove comprò dolci, cibo e un paio di vestiti per i fratelli più piccoli. Al suo ritorno a casa, la madre di Bilal mi telefonò ringraziandomi per il mio gesto di solidarietà.
Il giorno seguente invece ho incontrato la mia vecchia amica Aya, una ragazza abbastanza benestante che mi ha raccontato di come nella sua famiglia – proveniente da un villaggio a nord della Siria, vicino a Jsr al-Shoujur – erano stati rapiti quindici suoi parenti e ammazzati una trentina. La sua famiglia è conosciuta per essere molto fedele al presidente Assad e i criminali terroristi dell’EsL hanno fatto il loro sporco lavoro di ritorsione nei loro confronti. Negli attentati di quello stesso giorno, che hanno rotto la tregua, hanno perso la vita diversi bambini. Non voglio esprimermi, mentre scrivo questa testimonianza. Sono ormai le tre di notte e, nonostante il ‘cessate il fuoco’ già finito da stamattina, questa stessa sera per una mezz’ora, verso le 2, si sono sentiti degli spari.
Prego Dio ogni giorno che il mio Paese possa ritrovare al più presto la via del dialogo, della pace e della riconciliazione nazionale in nome dell’amore per la nostra terra, per quella serenità che ci distingueva da altri Paesi della regione.
Buonanotte. 
Stato e potenza

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