giovedì 3 febbraio 2011

Quali possibilità di azione e di profitto ci possono offrire le tendenze in atto e i possibili scenari in cui sfoceranno? Che servizi potremo dare, a chi, e in cambio di che, nel contesto che si sta formando, per quanto tormentato e impoverito esso possa essere? La situazione italiana, e occidentale in generale, è carica di tensioni e squilibri che per ora vengono tamponati, ma che, per il loro sottostante strutturale, non possono scaricarsi in cambiamenti modesti, bensì solo in cambiamenti sostanziali. E i cambiamenti sostanziali, anche se in peggio, cioè nel senso del degrado e del disastro economico, schiudono opportunità di guadagni sostanziali a chi è mentalmente aperto e pronto ad intervenire per occupare le giuste posizioni in tali rivolgimenti danno la possibilità di emergere. Immaginiamo di essere una compagnia d’assalto che si prepara a sbarcare su un’isola sconosciuta, e che la scruta attraverso le foschie del tempo, cercando di indovinarne il profilo e le caratteristiche, le insidie e i tesori nascosti.

L’Italia ha conti pubblici insostenibili. Il debito pubblico cresce, mentre cala la ricchezza prodotta e l’occupazione reale. I partner dominanti nell’UE – Germania e Francia – esigono riduzione del debito. Si profilano nuove tasse e nuove privatizzazioni, eufemisticamente dette “liberalizzazioni”. Le prime saranno una patrimoniale che colpirà i patrimoni non abbastanza grandi da sottrarsi al fisco. Quindi colpirà il mattone e il risparmio. L’effetto sarà depressivo per i consumi e l’economia. Invoglierà all’esportazione dei capitali e all’emigrazione. Le privatizzazioni si sono sempre tradotte in svendite in favore degli amici e in creazione di nuovi monopoli e cartelli politico-affaristici, perlopiù inefficienti (servizi pubblici), più costosi, quindi in un aumento dei costi e dell’inefficienza del sistema-paese. 

L’ideale sarebbe quindi delocalizzarsi adesso. Chi ritarda, sarà doppiamente svantaggiato, perché subirà la patrimoniale e perché si troverà a muoversi assieme a molti altri, probabilmente.

La patrimoniale e le liberalizzazioni, eseguite al fine dichiarato di risanare la finanza pubblica, faranno cassa e porteranno i soldi dei cittadini nelle mani dei capi nazionali e locali di quella stessa partitocrazia che, con la sua incompetenza e con la sua rubacità, ha prodotto il disastro di finanza pubblica che ora pretende di sanare coi nostri soldi. Si tenga presente che la partitocrazia ottiene legittimazione “democratica”, voti, sostegni e potere non per i suoi meriti di buona gestione – meriti che non ha – bensì mediante le clientele e il voto di scambio. Quindi peggio va la cosa pubblica che gestisce, più essa ha necessità di usare i soldi dei contribuenti in modo tale da mantenere i consensi clientelari e criminosi anzidetti. Essa si trova costretta, dall’attuale situazione di crisi, a spendere ed amministrare sempre più clientelarmente, cioè sempre peggio, in termini di efficienza. E’ impossibile che tagli le spese inutili, clientelari, corrotte, perché sono proprio quelle che le portano i principali sostegni. Non dimentichiamo che circa ¼ del territorio è controllato dalle varie mafie e che senza il loro supporto anche elettorale nessun governo può avere i numeri nel parlamento nazionale, per non dire dei consigli regionali di Sicilia, Calabria, Campania, Puglia. E senza gli sprechi della sanità umbra, che spende quanto quella lombarda con una popolazione di 1/10, come potrebbe mantenere i consensi il partito che tradizionalmente governa l’Umbria? Vi sarebbero, ovviamente, altri esempi per Sardegna, Trentino Alto Adige, Val d’Aosta, e non solo. Quindi non può avvenire che si volti pagina, che si tagli la spesa improduttiva, che si eliminino gli sprechi. Per farlo, bisognerebbe eliminare la stessa classe politica che su di essa si regge, nonché i meccanismi di consenso che la esprimono e sostengono. Inoltre, bisognerebbe sostituire questa classe politica con una competente e “sana”, che però non esiste in Italia, anche perché la classe politica esistente si è sempre selezionata nel modo che sappiamo.

Previsionalmente, l’Italia pertanto continuerà il suo cammino di declino economico, produttivo, tecnologico, scientifico, didattico, formativo, amministrativo, funzionale, competitivo. La sua economia, costituita perlopiù da nicchie – il design, il lusso, qualche punta tecnologica, il turismo – e da settori in competizione coi paesi emergenti, anzi rampanti, continuerà a perdere terreno, via via che questi paesi eroderanno il residuo distacco qualitativo e via via che altri paesi impareranno a imitare le produzioni di nicchia. La classe dirigente non ha mostrato, in vent’anni, alcuna capacità di reazione, recupero, correzione. Il trend oramai è fisso. L’Italia sarà sempre più povera, avrà sempre meno lavoro, sempre meno valore aggiunto. Per sostenere il debito pubblico il risparmio sarà ripetutamente colpito e i servizi tagliati. La grande industria, capace di fare sistema, ricerca, innovazione, è morta o in mani straniere, quasi interamente. 

Del resto, nessun popolo, nessuna civiltà, che abbia constatato di essere in via di declino sistemico (India, Egitto, Grecia, Roma, etc.) è mai riuscita a invertire il trend, pur provandoci. Oggi vediamo la politica bloccata in una posizione di stallo, tale che verosimilmente neanche elezioni politiche anticipate porterebbero a una chiara e funzionante maggioranza, capace di vere ed efficaci riforme. Soprattutto, però, la classe politica italiana, in blocco, e in particolare il parlamento (nelle cui fogne altissimo è il tasso di metaboliti della cocaina), non possono rappresentare il popolo – quindi non vi è la legittimazione democratica del potere pubblico, delle istituzioni – anche perché i parlamentari rappresentano essenzialmente i segretari dei partiti dai quali vengono nominati, e i loro interessi. Quindi manca il meccanismo fondamentale di trasmissione dal popolo, dalla società civile, al palazzo, allo Stato.

In quale scenario dobbiamo dunque prepararci a intervenire, a operare, con le nostre varie professionalità? Direi in uno scenario analogo a quello di una grande azienda in crisi di obsolescenza e inefficienza e indebitamento. Arriva la concorrenza, la smembra, rileva i pezzi più interessanti, chiude quelli morti, chiude anche quelli troppo vivi, perché capaci di fare concorrenza; con il resto e coi debiti fa una Bad Company e la scarica sull’Inps o giù di lì. Ai dipendenti, ai sindacati e al governo nazionale pone la scelta Marchionne: “O lavorate alle condizioni che dico io, e io pago le tasse come mi sta bene, oppure chiudo”. L’Italia, cioè, sarà presto gestita da chi avrà in mano i suoi centri economici e i suoi debiti. Sarà gestita da padroni esteri o esterizzati. Da Detroit, Francoforte e Londra. E allora sì che verranno le riforme, anche se non nell’interesse degli Italiani, ovviamente. Allora sì che sarà riformabile, che le sue mille ingessature interne si sbricioleranno, perché chi la comanderà non sarà più una classe politica interna, nazionale, che per conservare la poltrona e per governare ha bisogno dei consensi interni, dei voti popolari, della pace sindacale, del benestare vaticano. Sarà un padrone straniero non più ricattabile, bensì ricattante, perché avrà la forza economica in pugno. Avrà il controllo dei mercati e del credito, del rating del debito pubblico italiano, quindi della stabilità di qualsiasi maggioranza.

Questo è lo scenario, questo è l’insieme dei processi trasformativi, sociali ed economici, in cui bisogna sapersi inserire per aver chances di successo. Si profilano esigenze di competenze professionali in grado di gestire il consenso, l’ordine pubblico, la riorganizzazione, di una società che si impoverisce, che viene governata sempre più da poteri esterni, i quali però avranno bisogno di operatori di collegamento italiani, intelligenti e affidabili, capaci di assorbire e gestire gli scontenti, i dissensi, le contraddizioni anche giuridiche. E che accettino di inserirsi in un governo di carattere sostanzialmente (cioè economicamente) coloniale. In questo li potrà aiutare la storiografia, la quale ci mostra che lo stato unitario italiano nasce appunto come uno stato creato in modo coloniale, come la Jugoslavia o il Sudan o l’Iraq, per azione e interessi esterni ad esso, delle grandi potenze del tempo – Gran Bretagna e Francia – che decisero di costituire una media potenza, molto divisa quindi debole e pilotabile, in funzione prevalentemente antigermanica. 

DI MARCO DELLA LUNA

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