mercoledì 21 luglio 2010


Francesco Bevilacqua
Il Corriere di Bologna titola oggi in seconda pagina: «Troppi ragazzi al liceo, ma servono i tecnici». Nell’articolo principale viene riportata una serie di lamentele da parte di alcuni addetti ai lavori: alle Aldini Valeriani (famoso istituto tecnico emiliano) si rimpiange i tempi quando «i genitori facevano la fila fin dalle quattro del mattino» per iscrivere i figli, così come un dirigente del progetto trait d’union fra scuola e imprese Quadrifoglio evidenzia il fatto che i ragazzi e i genitori si stiano ri-orientando sempre di più verso i licei.

La CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia del Lavoro) conferma effettivamente queste dichiarazioni con un rapporto che registra il 54% delle preferenze dirette verso i licei e individua una carenza a livello nazionale nell’ordine dei due milioni e mezzo di lavoratori specializzati, in particolare di figure quali informatici, addetti alla logistica e al marketing, progettisti elettronici e infermieri....
 L’appello dell’assessore regionale alla scuola va sempre nella stessa direzione: «Bisogna ridare centralità alla formazione tecnica». L’assessore provinciale addebita questa situazione alla situazione di indeterminatezza generata dalla riforma Gelmini e allo scollamento fra mondo della scuola e mondo del lavoro.

Ecco quindi quello che vuole oggi il mondo delle imprese: ragazzi formati, preparati al lavoro, persone già in grado di inserirsi in un percorso professionale a diciannove anni. Figure altamente specializzate che, come dicono dalla CNA, «sono un valore aggiunto e fondamentale per le imprese».



Pur tenendo conto di tutte le difficoltà legate alla vita reale, che va al di là di un articoletto di critica sociale e ha a che fare col confrontarsi quotidianamente con necessità improrogabili come sostenere un mutuo, comprare da mangiare, pagare le bollette e così via, ritengo questo scenario sconfortante. La sempre maggiore richiesta di specializzazione è un grave problema che trae le sue origini dalla teoria della divisione del lavoro di Adam Smith, secondo la quale artigiani che si specializzavano in singole fasi della lavorazione avrebbero portato un’ottimizzazione della produzione, come ha dimostrato d’altra parte l’applicazione del modello taylorista. Se questo assunto potrebbe essere vero da un punto di vista rigorosamente tecnico, non tiene però conto della mortificazione della persona, ridotta a merce e “misurata” in redditività oraria, espropriata del proprio ingegno, della propria fantasia e istupidita da un lavoro ripetitivo, uguale, opprimente e deprimente. Questo era verissimo nelle catene di montaggio degli anni venti e trenta, ma è anche vero negli alienanti uffici moderni, dove outsourcing, compartimentazione degli ambiti lavorativi e maniacale ottimizzazione del tempo salariato svuotano completamente il lavoro di ogni qualsivoglia valore sociale, relazionale e umano per trasformarlo in una fredda attività fine a sé stessa, non più un mezzo ma un obiettivo, lavorare per lavorare. Non per niente il trascendentale Thoreau riteneva la specializzazione del lavoro una meschina pratica volta a privare l’uomo della capacità di provvedere autonomamente a tutti i suoi bisogni, a privarlo dell’autosufficienza.

La tendenza è quindi questa: eliminare nella maniera più veloce e radicale possibile la cultura classica, lo studio, l’approfondimento, la capacità critica e analitica, l’apertura mentale, tutte cose buttate frettolosamente nel calderone della “formazione umanistica”: «le Pmi non ci chiedono umanisti, vogliono ingegneri e manutentori» dice uno dei “cacciatori di teste” (ma che sono, degli indigeni cannibali del Borneo?!) della Hoel Consulting. Da un lato per fare sì che i nostri ragazzi siano già, appena maggiorenni, dei bravi soldatini, pronti ed efficienti nel fare quelle quattro cose che l’istituto tecnico ha insegnato loro e poco propensi a perdere il tempo con stupidate come letteratura, arti figurative, informazione, attività creative, approfondimenti e studi di critica sociale. Dall’altro lato, l’obiettivo è rincoglionirli al punto giusto, eliminare in loro ogni stimolo che li possa svegliare dal torpore del lavoro-come-stile-di-vita e ogni capacità che li renda autosufficienti, immuni a questo sistema opprimente e alienante, capaci di reagire e di sostenersi da soli.

Ma l’articolo che ho appena commentato è in fondo una bella notizia, poiché testimonia che molti non cascano nella trappola e sono tanti i ragazzi e i genitori che preferiscono la vera crescita umana e culturale alla formazione di automi condannati a rimanere rinchiusi per trent’anni dentro un ufficio, riducendo la propria vita a un’unica interminabile giornata lavorativa per poi accorgersi, allo scoccare delle diciassette, di non aver vissuto affatto

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